Specchio della psiche e della civiltà

 

 

GIUSEPPE PERRELLA

 

 

NOTE E NOTIZIE - Anno XVIII – 15 maggio 2021.

Testi pubblicati sul sito www.brainmindlife.org della Società Nazionale di Neuroscienze “Brain, Mind & Life - Italia” (BM&L-Italia). Oltre a notizie o commenti relativi a fatti ed eventi rilevanti per la Società, la sezione “note e notizie” presenta settimanalmente lavori neuroscientifici selezionati fra quelli pubblicati o in corso di pubblicazione sulle maggiori riviste e il cui argomento è oggetto di studio dei soci componenti lo staff dei recensori della Commissione Scientifica della Società.

 

 

[Tipologia del testo: SAGGIO BREVE/DISCUSSIONE]

 

 

(Sesta Parte)

 

10. La transizione verso una nuova socialità recupera le radici classiche e impiega la bellezza quale metafora, figura e simbolo di ogni valore. I Romani avevano conquistato il mondo antico con la forza militare, sostenuta dalla rigorosa disciplina di soldati e civili sottoposti a un regime giuridico preciso ed efficiente, e ben presto, nel corso della loro lunga storia, erano diventati uomini civici, ma erano consapevoli di non avere radici culturali all’altezza delle loro ambizioni di espansione e conquista[1], e le avevano tratte dai Greci, per diventare uomini di cultura.

Paul Veyne, per spiegare il motivo per cui l’opera storica di cui ho parlato in precedenza prendesse le mosse da Roma e non dalla Grecia, si esprime così: “Perché i Greci sono in Roma, sono l’essenziale di Roma; l’Impero Romano è la civiltà ellenistica nelle mani brutali di un apparato statale di origine italiana. A Roma la civiltà, la cultura, la letteratura, l’arte e la religione stessa sono quasi per intero venute dalla Grecia, nel corso di mezzo millennio di acculturazione; fin dalla sua fondazione Roma, potente città etrusca, era grecizzata non meno delle altre città dell’Etruria”[2].

Una concezione storica, che ci aiuta a comprendere un atteggiamento tipico nel primo secolo d.C. a Roma: per molti Romani essere autoctoni voleva dire dichiararsi rozzi e ignoranti, dunque non erano pochi quelli che vantavano o millantavano un’ascendenza etrusca, al punto che Aulo Persio Flacco sferza con questa ironia canzonatoria uno di costoro, il giovane ignavo della terza satira: “Oppure reputi decoroso gonfiarti di vento i polmoni fino a spaccarli perché nella tua genealogia etrusca stai in cima al millesimo ramo…”[3].

L’uso della cultura classica per edificarsi è stato un passaggio cruciale nell’evoluzione dall’uomo civico romano all’uomo interiore medievale. Ma lo sviluppo di questa interiorità, che sposta il focus antropologico dall’identità legata al ruolo sociale nella realizzazione di un ideale collettivo alla soggettività del singolo che ospita nel suo mondo interiore l’universalità umanistica, ha il suo insostituibile fulcro nella spiritualità cristiana, fondata da un uomo che con la sua vita, morte e resurrezione realizza la possibilità del divino nell’umano, legando la diacronia plurimillenaria delle promesse bibliche e la dimensione incommensurabile del Creatore all’intimità della coscienza di ogni persona, l’eternità del regno dei cieli alla microstoria del singolo nell’istante presente. Non c’è altra fede che unisca l’universalità all’individualità in modo così essenziale.

Credere nella presenza di Dio nel proprio intimo come nella storia, quale verità assoluta, e sentire ogni vissuto interiore in base a questa fede, fa tutta la differenza. Non si può, da zeloti dell’ateismo o dell’agnosticismo neopagano, oppure da fautori dell’applicazione alla storia del paradigma della correttezza formale nella comunicazione politica, trascurare questa chiave interpretativa per comprendere la psicologia dei soggetti storici dal medioevo all’epoca contemporanea.

Il credo incide nella concezione della bellezza, sia nel valore d’essenza che nelle forme dell’arte, perché ne guida e sostiene il sentimento; allo stesso tempo, tenendo vivo il conflitto con il mondo, secondo la natura stessa del Cristo quale segno di contraddizione[4], sospende l’identificazione del soggetto col valore del desiderio naturale realizzato e sublimato secondo la doxa pagana, e lo costringe all’esercizio di coscienza per scegliere, come tra il bene e il male, ciò che è bello al cospetto di Dio. Ignorare questo, vuol dire accontentarsi di una superficialità descrittiva che non va oltre un meccanicismo causale che concatena banalmente atti e fatti, perdendo il senso delle ragioni morali profonde all’origine di sentimenti e passioni motrici dell’arte e della storia.

Gli storici pongono a volte sotto i nostri occhi l’evidenza di fatti del passato con una chiarezza e un’immediatezza che ce li rende presenti. Tra questi c’è un fatto che riguarda diffusamente le genti e i sovrani rinascimentali, ma già presente nei fenomeni circoscritti di rinascenza dell’epoca medievale: costoro credono realmente in alcuni valori di arte e cultura, al punto che molti artisti eleggono la loro realizzazione a scopo della vita, quale mezzo di sostentamento per il corpo e salvezza dello spirito, e molti detentori del potere sostengono l’attuazione dei valori nelle opere come strumento di buon governo e fine di elevazione civile e morale della propria comunità.

Nelle società barbare, il potere, supportato dal possesso di beni e territori ottenuti e difesi con la forza, è esercitato da chi non comprende tali valori e tende a distruggerli nella considerazione collettiva, se non proprio nella materialità delle opere che li rappresentano e delle persone che li interpretano, perché non può controllarli e teme che diventino essi stessi potere. Le orde barbariche facevano questo con devastazioni, incendi e massacri; le società imbarbarite di ogni tempo, come quella in cui viviamo, lo fanno creando forme controllabili e spesso burocratiche, costruite clientelarmente secondo criteri di appartenenza familiare, politica ed economica, e le sostituisce alla sostanza di valori e abilità che li realizzino[5].

L’Europa in epoca rinascimentale era in massima parte libera dal flagello della lebbra, ma non ancora da quello della peste, aveva ridotto le spese militari e accresciuto gli investimenti in tutti i settori della vita civile, caratterizzati da uno sviluppo del commercio senza precedenti, con la scalata sociale e l’acculturazione della borghesia mercantile, che spesso contendeva alla nobiltà di origine militare il privilegio del finanziamento delle grandi opere pubbliche. In molte famiglie, come accadeva sovente a Firenze, una generazione di mercanti era seguita da una di banchieri e, mentre quelli che si definivano “giochi dello scambio” accrescevano il benessere contribuendo all’eliminazione della disoccupazione in molte città, l’homo faber era allo stesso tempo centro della vita culturale e della forza economica.

Gli ordini religiosi, insegnando l’arte o fondando vere scuole di pittura per orfani, celestini e bambini indigenti[6], che diventavano artisti in grado di offrirsi alla committenza più esigente, avevano creato un modo per ottenere che i ricchi finanziassero i poveri. L’amore per la bellezza, dopo il vincolo di appartenenza alla ecclesia, costituiva la principale ragione di incontro fra persone appartenenti a realtà sociali e condizioni di vita estremamente diverse.

In architettura si passa dalle grandi cattedrali gotiche alle chiese rinascimentali caratterizzate dal ritorno agli ordini classici, dalla ricerca di articolazioni ortogonali e simmetriche, dall’impiego della proporzione armonica dei moduli e delle parti, che sostituisce il gusto dello slancio verso l’alto con guglie e pinnacoli; in Firenze nasce lo stile detto dagli storici dell’arte “Primo Rinascimento”[7], e poi saranno prevalentemente gli artisti di cultura umanistica e neoplatonica fiorentina i protagonisti della fase classica o romana che ha la sua massima espressione nella fabbrica di San Pietro.

Mi piace, in proposito, fare una considerazione relativa alla dimensione temporale, che ritengo significativa in termini di atteggiamento mentale dei soggetti storici: le grandi architetture gotiche erano progetti che richiedevano varie generazioni per essere portati a termine e non di rado la costruzione era interrotta e ripresa nel corso di centinaia di anni[8]; nella fabbrica di San Pietro il Papa licenziò Leonardo da Vinci per scarso rendimento, in quanto si attardava in studi preparatori mentre si volevano da lui gli affreschi in tempi brevi, con rapida efficienza esecutiva, quale quella del Perugino. Si pensi che Michelangelo, dopo aver firmato l’impegno per affrescare la volta della Sistina il 10 maggio 1508 e aver trascorso un anno di apprendistato, sofferenze e sperimentazione per imparare la tecnica dell’affresco, nel 1509 è alacremente all’opera e l’11 di ottobre del 1512 completa e presenta a Giulio II il ciclo di affreschi più grande e importante di tutta la storia della pittura.

Per rendere il carattere delle due epoche con una metafora religiosa si è detto che il Medioevo è fermo alla sofferenza della passione, mentre il Rinascimento incarna lo spirito di gioia per la resurrezione; anche se si tratta di stereotipi, contraddetti da innumerevoli testimonianze di eccezioni e contrasti che vanno dalle isole di umanesimo anticipato al permanere dei tribunali dell’inquisizione, come tutte le schematizzazioni tratte da testimonianze, colgono aspetti significativi della realtà più evidente.

Il Medioevo aveva facilitato l’affermarsi dello stile depressivo e, con ogni probabilità, molti si ammalavano realmente di depressione, visto quanto era temuta, anche se denominata aegritudo e considerata un colpevole male dello spirito[9]. Non occorre un’interpretazione psicopatologica o neuroscientifica per rendersi conto che l’isolamento, il continuo richiamo penitenziale delle quattro Tempora, lo stress dovuto alla conflittualità sociale in forma bellica, soprattutto se non bilanciati da intensa attività fisica e psicofisica, facilitassero lo stabilirsi di uno stile di funzionamento psichico caratterizzato da basso tono dell’umore, rallentamento ideo-motorio, inefficienza entropica e riduzione di fiducia in sé stessi e negli esiti positivi degli eventi.

Per ragioni diverse, lo spirito contemplativo, la pur serena, paziente e perseverante lentezza delle attività compiute nei monasteri senza l’assillo dei tempi di consegna, quali inconsapevoli modelli, costituivano verosimilmente una sinergia comportamentale e un rinforzo per l’affermazione prevalente di uno stile sociale ispirato a tempi lunghi e caratterizzato da una bassa frequenza di atti che implicano la percezione e la registrazione cerebrale del “nuovo”, come nel dare inizio, fare incontri o cambiare registro, contesto, luogo o attività.

Il soggetto rinascimentale, considerato sempre attraverso deduzioni e inferenze sul materiale storico, sembra animato da un profondo desiderio di vita e dal bisogno di liberarsi dalle angustie morali come dalle restrizioni materiali dell’età di mezzo, cercando un nuovo stile di vita basato sulla partecipazione sociale, sulla costruzione di una fiducia nei rapporti con gli altri del tutto sconosciuta alle genti dei secoli precedenti. Soprattutto, si cercano strategie di pensiero per coniugare i principi e le aspirazioni derivate dalle autorità dell’antichità classica, e non più solo Platone, ma anche Aristotele, Epicuro, Cicerone e Quintiliano, con la visione cristiana della vita. Due ostacoli appaiono insormontabili: la necessità cristiana di perdere questa vita per salvare quella eterna e l’esclusione della leva erotica dai rapporti sociali, propria delle società pagane.

L’apertura della Chiesa, anche se più pastorale che teologica, in questo periodo è evidente; basti pensare al ciclo degli affreschi perduti di Pontormo nella Basilica di San Lorenzo ispirati al testo del catechismo di Juan de Valdés[10].

Ciò che avviene nella cultura del Rinascimento, e probabilmente si era verificato tante volte e in tanti luoghi in epoca medievale senza mai riuscire a diffondersi ed affermarsi[11], è l’impiego della ragione fondata sulla verità della fede, quasi ad imitare Cristo stesso[12], per superare i limiti del “fariseismo cristiano” e le derive formalistiche, a favore di una sostanza focalizzata sulla buona novella apportatrice di gioia nella bellezza della grazia, quale anticipatrice terrena della beatitudine[13].

Ma non sempre gli sforzi hanno lo scopo di una semplificazione di sostanza, in alcuni casi mirano a trovare, per frasi evangeliche, nuove letture di dettaglio più vicine allo Zeitgeist. Un esempio interessante di questi tentativi esegetici riguarda una prescrizione rigorosamente rispettata fin dal tempo dei primi discepoli: “Avete inteso che fu detto: non commettere adulterio; ma io vi dico: chiunque guarda una donna per desiderarla, ha già commesso adulterio con lei nel suo cuore” (Matteo: 5, 27-28). Un elemento cruciale della dottrina che, oltre a spiegare i costumi castigati medievali e il rispetto al limite del disinteresse degli uomini cristiani per le donne, è all’origine di una cruciale questione teologica: il peccato di pensiero.

L’intensa attività filologica, tipica dell’umanesimo, sembra influenzare gli esegeti rinascimentali del testo biblico, che provano a interrogare le antiche parole evangeliche per trovare qualche via d’uscita a una prescrizione tanto severa. Alcune delle interpretazioni dell’epoca sono giunte fino a noi[14]. Ad esempio, si rilevò che il verbo adoperato nel testo originario voleva dire “considerare progettualmente” e non semplicemente guardare[15]; si osservò anche che il sostantivo riferito alla persona di sesso femminile era quello esclusivamente riservato alle donne sposate, le “signore”, escludendo le giovani non coniugate, dette vergini, per la qualità dell’illibatezza che accomunava tutte le giovani, peraltro mai messa in discussione nei tredici secoli trascorsi dal decalogo mosaico. Questa interpretazione rimaneva coerente con il comandamento “non desiderare la donna d’altri”.

Ma una questione meno lessicale-semantica e più teologica era proposta da alcuni per una decodifica non rigidamente letterale: l’ammonimento del Maestro è un insegnamento con un fine preventivo, che consiste proprio nello spiegare come proteggersi dal rischio di trasgredire il divieto di adulterio. In altre parole, se tu rivolgi a una donna sposata il tipo di attenzione che si rivolge a una potenziale partner, dentro di te, “nel tuo cuore”, hai già creato le condizioni per cadere in peccato. Una lettura plausibile e ancora oggi proposta da alcuni.

Tuttavia, in seno alla Chiesa questo modo di intendere il testo evangelico non è ufficialmente accettato, sia perché sarebbe contrario all’esegesi dei Padri della Chiesa sia perché tradisce il nucleo della spiritualità giudaica, che la buona novella ha reso perfetto e compiuto nelle sue ragioni essenziali: la rinuncia all’atteggiamento di ricerca del piacere è indispensabile per ottenere la “semplicità di cuore” ebraica, consistente nel porre il volere di Dio al primo posto, confidando nel suo valore di bene per l’uomo, secondo quella fiducia cieca chiesta da Cristo, che rende “come bambini” e permette di entrare nel regno dei cieli.

Del resto il solco di ragione per rinunciare al piacere per la gioia era stato tracciato da Dante in modo mirabile[16], indicando la via nel suo andare di bellezza in bellezza, per mezzo di Beatrice a Maria, oltre i nove cieli che ruotano intorno alla terra, fino all’Empireo, luogo senza tempo illuminato dall’Eterno in cui nulla più si rappresenta e tutto esiste come parte della “candida rosa” che è l’assoluto dell’armonia, della bontà e della bellezza.

E, per chi fosse stato ancora tentato dal rischio di assecondare la passione terrena di cedere all’attrazione della carne, vi era il modello di sublimazione estetica fornito da Francesco Petrarca. Per quanto nei commenti scolastici si sottolinei una sensualità assente nello stilnovo, non è mai in questione nulla di accostabile alla deriva neopagana attuale che, banalizzando i rapporti sessuali come mezzo di soddisfazione di istinti fisiologici, implicitamente autorizza la degradazione di soggetti a oggetti, riducendo i loro attributi fisici ad evocatori di un comportamento di uso strumentale del corpo dell’altro.

Nella poesia di Petrarca, anche se la celebrazione delle vaghezze del viso di Laura, come il vago lume degli occhi o il vago e biondo capel, e delle belle membra poste nelle chiare, fresche e dolci acque, verte sull’ammirazione dell’aspetto fisico, si coglie sempre l’attenzione al suo animo. Il come dolce parla e dolce ride, così come gli innumerevoli riferimenti del poeta al suo attento esplorare e indagare l’espressione di affetti ed emozioni per comprendere gli stati d’animo di Laura, ci presentano un’estetica dello spirito, che un innamorato vede armonicamente compiuta, quale perfezione ideale, nei modi e nelle forme che oltre a indurre sogni suscitano desideri, ma rimangono attributi della totalità dell’essere amato degno di ammirazione.

 

11. Il Rinascimento è l’epoca della comunicazione culturale e della conquista con l’arte e la parola. Un secolo dopo, la ricerca della bellezza era entrata nel costume di Firenze, quale parte dello stile di vita della maggioranza, perché trasmessa con l’educazione e sostenuta dalla considerazione sociale in cui erano tenute tutte le attività artistiche, in quanto mezzo per elevare l’animo ai valori soprannaturali e strumento insostituibile per il progresso civile dei popoli.

La pratica cristiana della bellezza non si compie col possesso di opere d’arte ma con la sua realizzazione, ciascuno con i propri talenti e le proprie possibilità, inclusa quella di aiutare altri a produrre lavori e stili di vita esemplari che realizzino l’opera di misericordia spirituale di insegnare agli ignoranti. È questa l’origine del mecenatismo religioso e signorile del Rinascimento.

I Medici, mecenati di artisti ed essi stessi impegnati nell’arte, tentano di realizzare il perfetto ideale neoplatonico che riconduce la bellezza ad essenza e, nella consolidata visione cristiana della Firenze guelfa, riportano la sua origine al Padre, creatore e padrone di ogni forma naturale, e la sua quotidiana traduzione nelle opere del braccio e della mente al Figlio, logos incarnato e modello di bellezza della vita dell’uomo. Al di là delle versioni romanzate delle loro biografie e delle palesi costruzioni o invenzioni non giustificate dall’intento di riempire i vuoti lasciati dalla documentazione storica[17], Lorenzo il Magnifico e altri autorevoli rappresentanti della famiglia interpretano, pur con limiti e difetti, un ideale etico-estetico di vita.

Jacob Burckhardt, lo storico svizzero ritenuto il massimo interprete della cultura rinascimentale e autore de La civiltà del Rinascimento in Italia, opera alla quale hanno attinto tutti gli studiosi di quel periodo in età contemporanea, afferma che la cultura medicea rende Firenze “il primo Stato Opera d’Arte” in Europa. L’impatto straordinario dell’arte della rinascita sulle società del vecchio continente si deve proprio alla convinta partecipazione a questo rinnovamento della vita nei valori delle famiglie più ricche e potenti. Se straordinarie scuole di pittura nascono dalla carità ospitale della Chiesa, sono la grande iniziativa di impresa e i ciclopici investimenti economici a consentire la realizzazione di quella miriade di opere di architettura, scultura, pittura e artigianato che non ha uguale per concentrazione nel tempo e nello spazio in alcun altro periodo della storia.

Un aneddoto, ritrovato in documenti dell’epoca dall’archivista della Misericordia Foresto Niccolai, ci fornisce una testimonianza sullo spirito del tempo. Niccolò Grosso, un valente fabbro e scultore in bronzo soprannominato “Caparra” da Lorenzo il Magnifico, perché non avviava mai un opera senza aver ottenuto un anticipo, per mancanza di richieste era finito a vendere cipolle in piazza Strozzi, all’epoca detta appunto “Piazza delle cipolle”;  Filippo Strozzi, potente banchiere e membro di una famiglia che contendeva ai Medici la Signoria, lo aveva salvato dalla miseria commissionandogli le quattro grandi lanterne artistiche[18] che ornano gli angoli di Palazzo Strozzi e le celebri campanelle, consentendogli di riprendere il suo antico lavoro, che poi proseguì forgiando umili utensili di uso domestico quotidiano. Lorenzo il Magnifico, già signore della città, ebbe un giorno necessità urgente di un lavoro di qualità e decise di rivolgersi a lui per la sua abilità e per fargli cosa grata con un pagamento adeguato. Giunto alla bottega, trovò il Caparra intento a forgiare i suoi piccoli utensili, e allora attese pazientemente il suo turno; quando poté parlargli, gli chiese se poteva commissionargli un lavoro, ma dovette ancora attendere perché, scrive il testimone dell’epoca: “Non volse promettere di servirlo se prima non serviva coloro, dicendo che erano venuti a bottega innanzi a lui e che stimava i denari loro quanto quei di Lorenzo”[19].

Il giovane sovrano rinascimentale fece esercizio di umiltà e pazienza, attendendo ancora, e lasciandoci una traccia di due espressioni del neoplatonismo cristiano: il rispetto del valore e il rispetto dell’altro.

Ma l’aspetto che mi sembra meriti la maggiore attenzione in questo periodo è il nuovo modo di intendere la trasmissione interpersonale e sociale di contenuti spirituali e di conoscenza. Oggi, con gli strumenti tecnologici di amplificazione e diffusione rapida e planetaria di cui disponiamo, se riuscissimo ad apprendere qualcosa da quella lezione potremmo fare autentiche meraviglie.

A mio parere non c’è esempio migliore per illustrare l’affermarsi del potere della comunicazione culturale attraverso l’arte e la parola per la conquista dei cuori e delle menti, del rapporto tra due giovani che hanno lasciato un’impronta indelebile nella storia fiorentina e italiana, come nella coscienza culturale dell’umanità: Leonardo da Vinci e Lorenzo de’ Medici.

L’incontro[20] risale a quel periodo di dodici anni trascorsi dal genio universale a Firenze in sistematica formazione e intensa sperimentazione, durante il quale trova sulla via dei suoi interessi il quasi coetaneo Lorenzo, così ritratto da Carlo Pedretti: “…raffinato umanista, scaltro mercante, astuto statista e abile politico, ma soprattutto impareggiabile diplomatico: in breve, un maestro della comunicazione”[21].

A torto, in numerose opere cinematografiche, teatrali e televisive, il personaggio Leonardo, forse in base alla suggestione del costante cliché narrativo del mistero, è delineato come solitario, taciturno, schivo, tralasciando quanto sottolineato da tanti studiosi dei suoi appunti grafici su facezie, favole e animali[22], ossia che si preparava agli incontri sociali riservando ai contenuti dei suoi discorsi la stessa cura che impiegava nel disegno e nella pittura.

Leonardo era impressionato dal fascino esercitato da Lorenzo sui suoi interlocutori sociali: un’attrazione non dovuta al suo aspetto, perché il viso di Lorenzo non era certo regolare e perfetto quanto quello di tanti altri giovani della loro cerchia, che facevano sognare le madonne[23].

La forza del giovane signore era in una capacità interiore che trasferiva nella parola, ammaliando l’interlocutore che si sentiva preso dalle ragioni per la magia con la quale erano giunte al suo orecchio. Lorenzo era un capo ma non comandava, non impartiva ordini ma persuadeva. La sua esercitata abilità non faceva ricorso alla vuota retorica di un imbonitore né alle allusive promesse della seduzione, consisteva nel generare entusiasmo, nell’evocare uno stato mentale di affettività positiva in quell’equilibrio di alta energia che si esprime con fiducia, ottimismo e determinazione.

Leggiamo in Pedretti questa efficace sintesi: “Per il giovane Leonardo, Lorenzo è un esempio affascinante di tecnica della comunicazione, dove l’efficacia persuasiva della parola si basa sull’eloquenza e la psicologia, e con questo Leonardo viene ad affinare il proprio linguaggio visivo adottando una forma di pittura “parlante” che con l’Adorazione dei magi del 1481 (aveva allora ventinove anni) perviene a una intensità di animazione gestuale e di impatto iconico che sono proprio da film muto. Si spiega così l’attitudine precoce di Leonardo a imporsi con accattivante facondia all’attenzione dei suoi ascoltatori, una dote innata che forse gli viene dal padre notaio, e che è poi la stessa dote che presto l’avrebbe assecondato nel sistematico programma di affidare il proprio pensiero alla registrazione scritta…”[24].

Il giovane Genio di Vinci è attratto dalla naturalezza con la quale il suo nobile estimatore passa dall’interlocuzione con cardinali della Curia romana a quella con popolane e servitori, dal trattare con i più eccellenti artisti al contrattare con garzoni, fornarine e lavandaie: un sorriso per tutti, ma un accento e un verbo adatto per ognuno.

È ragionevole supporre che il talento locutorio se non oratorio in Leonardo fosse già presente in età adolescenziale e che l’emulazione dell’amico gli abbia consentito di raffinare le sue doti e acquisire conoscenza su modi, tempi e forme opportune per risultare gradito ed ottenere efficacia[25].

Nella celebre biografia di Vasari[26] si legge: “Era tanto piacevole nella conversazione, che tirava a sé gli animi delle genti; e non avendo egli si può dir nulla, e poco lavorando, del continuo tenne servitori e cavalli”[27]; parole che ci rendono conto tanto della qualità del genio quanto della cultura del riconoscimento di questi valori presso i Fiorentini, che gli prestavano o donavano ciò di cui aveva bisogno. Giorgio Vasari narra di quando, ancora giovinetto, l’autore della Gioconda facesse studi e disegni ogni giorno per incanalare l’Arno da Pisa a Firenze e tanti altri progetti molto arditi, presentandoli con grande capacità persuasiva: “E fra questi modelli e disegni ve ne era uno col quale più volte a molti cittadini ingegnosi che allora governavano Fiorenza, mostrava volere alzare il tempio di S. Giovanni di Fiorenza, e sottomettervi le scalee senza ruinarlo; e con sì forti ragioni lo persuadeva, che pareva possibile, quantunque ciascuno, poi che si era partito, conoscesse per se medesimo l’impossibilità di cotanta impresa”[28].

Dunque, piacevole nella conversazione, coinvolgente e convincente Leonardo lo era già, ma sembra che dal Magnifico abbia mutuato un interesse a trasmettere contenuti e stati d’animo in modi nuovi ed efficaci. Pedretti propone questa sintesi: “Sull’esempio di Lorenzo de’ Medici Leonardo si fa presto maestro della comunicazione. Un contemporaneo lo chiama «un altro Cato» e Giorgio Vasari, una generazione dopo, ne tramanda un’immagine ancora viva e presente anche se già avvolta nel proverbiale velo della leggenda dove prevale il gusto dell’aneddoto”[29].

 

 

 

 

[continua]

 

 

L’autore della nota ringrazia la dottoressa Isabella Floriani per la correzione della bozza e invita alla lettura degli scritti di argomento connesso che appaiono nella sezione “NOTE E NOTIZIE” del sito (utilizzare il motore interno nella pagina “CERCA”).

 

Giuseppe Perrella

BM&L-15 maggio 2021

www.brainmindlife.org

 

 

 

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[1] L’intento era sempre quello di romanizzare i popoli conquistati, latinizzarli non sottometterli in un’ottica coloniale. Una caratteristica delle campagne di occupazione romana consisteva nel portare, in un nuovo territorio, militari – che poi sarebbero stati seguiti dalle loro famiglie o avrebbero sposato donne locali – in numero maggiore degli abitanti residenti. Così, in quanto maggioranza, potevano diventare facilmente padroni in casa d’altri.

[2] Philippe Ariès e Georges Duby (a cura di) La vita privata dall’Impero Romano all’anno mille, p. X, CDE (su licenza Laterza), Milano 1987.

[3] Persio, Satire, p. 159, Rizzoli, Milano 1979.

[4] Simeone, prendendo tra le braccia Gesù Bambino, dice: “Egli è qui per la rovina e la risurrezione di molti, segno di contraddizione” (Luca 2, 34).

[5] Per rendere il senso con brutale evidenza: un Papa chiama Michelangelo a Roma per affrescare la Sistina e cinquecento anni dopo tutto il mondo continua ad ammirare un capolavoro unico; oggi si litiga a lungo per i finanziamenti, poi si definiscono progetti in concorso, nomi, sigle, slogan, campagne mediatiche, spartizioni di competenze, tipo di curriculum per escludere gli indesiderati e includere i clienti politici da impiegare col manuale Cencelli e, infine, non si realizza mai niente di memorabile.

[6] Come quella di Andrea del Sarto, con allievi l’orfano Jacopo Carucci detto Pontormo e il suo amico Rosso Fiorentino, presso l’ordine dei Servi di Maria Santissima Annunziata in Firenze, che aveva ospitato anche Morto da Feltre e Leonardo da Vinci, negli anni in cui Lisa Gherardini del Giocondo si recava a pregare nella chiesa dell’Annunziata.

[7] L’influenza si estende alle corti di Mantova e Urbino, seguita dal Rinascimento Classico (Roma) e dal Manierismo.

[8] Si pensi al Duomo di Milano: avviato nel 1386, nel 1567 San Carlo Borromeo impose la ripresa dei lavori, nel 1745 Luigi Vanvitelli fornì disegni per alcune strutture, ma ancora la facciata era incompleta quando Napoleone nel 1805 fece istanza per il suo completamento, avvenuto ad opera di Carlo Amati nel 1813.

[9] Proprio rifacendosi a questa concezione medievale secondo cui l’ignavia derivante dalla mancanza di generosità nel servizio del prossimo fosse all’origine della sofferenza depressiva, lo psichiatra e psicoanalista freudiano Jacques Lacan dichiarò provocatoriamente al suo celebre seminario: “La depressione è un peccato”.

[10] Juan de Valdés (1500-1541), teologo riformatore erasmiano, rifiutò lo scisma luterano ma, processato e condannato dall’Inquisizione spagnola, fu costretto a trasferirsi in Italia dove visse e operò stabilendosi a Napoli fino alla morte.

[11] Anche noi, ponendoci nell’ottica degli storici, rischiamo di commettere l’errore di giudicare per appartenenza, generalizzando alcuni caratteri, sia pure emblematici, emergenti e ricorrenti nella documentazione, quale caratteristica di tutti coloro che appartenevano a quei secoli della vicenda umana.

[12] Tutto il Vangelo è percorso dalla riaffermazione con la ragione della sostanza spirituale sulla tirannia delle vuote forme farisaiche: da onorare davvero il padre e la madre e non sostituirvi l’obolo detto korban a compiere atti d’amore come le guarigioni di Cristo in giorno di sabato e non astenersi dal bene per rispettare la forma del divieto di agire.

[13] Non mancarono critiche a questo nuovo volto della religione, sempre più costituito dalla bellezza dell’arte e sempre meno rappresentato dalla sofferta contrizione dei monaci penitenti, soprattutto quando, per i fenomeni di corruzione del clero con la vendita delle indulgenze, fu assunto ad emblema della crisi spirituale dai fautori della riforma.

[14] Proposte da mons. Fabrizio Porcinai, ex-rettore del Seminario di Firenze, nel corso di lezioni tenute presso le sale della Basilica di San Lorenzo negli ultimi anni prima della scomparsa avvenuta nel 2014.

[15] Anche se, a mio modesto avviso, questa interpretazione comporta uno spostamento di senso (shifting) verso la proibizione del “fare progetti”, quando il senso è invece subito specificato dalle parole “per desiderarla”, che censurano il desiderio fisico. Ma, secondo altri, tutta la locuzione è frutto di traduzione di un singolo verbo e, dunque, “per desiderarla” sarebbe un’interpretazione semantica e non una formula verbale pronunciata da Gesù.

[16] Si veda il Canto XXXI del Paradiso. Nell’Empireo si compiono senza soluzione di continuità gli ultimi tre canti, e si passa direttamente dal penultimo alla sublime preghiera di Bernardo a Maria che introduce il canto finale. Il commento scolastico attrae l’attenzione sullo stato contemplativo, ma l’aspetto che mi piace sottolineare è l’andare oltre l’umano della concezione cristiana, indispensabile secondo Dante per ritrovare la “diritta via” smarrita durante la vita, secondo l’incipit metaforico dell’opera.

[17] L’errore più grave è l’interpretazione del governo mediceo sulla base delle categorie della politica di epoca industriale, e in questo errore incorrono autori come Volker Reinhart (I Medici, Carocci, Roma 2002), il quale riduce tutto il buono prodotto in arte, progresso culturale e benefici per il popolo ad una machiavellica opera di propaganda, non comprendendo, tra l’altro, che il consenso si fondava su rapporti personali con membri e rappresentanti delle famiglie fiorentine. Tutta Firenze contava meno abitanti di un quartiere di una città moderna e ciascuna delle “casate” (gli abitanti di ciascuna casa-torre) aveva almeno un rappresentante presso il governo e numerosi iscritti alle Arti e a una delle due Parti. Da notare, che tutti i cittadini potevano direttamente parlare con loro, incontrandoli per strada. Era un mondo molto diverso dal nostro.

[18] Oggi è rimasta una sola delle quattro splendide lanterne di Niccolò Grosso, le altre tre sono riproduzioni di epoca successiva.

[19] Foresto Niccolai, Bricciche Fiorentine (voll. I-VI), Vol. I (parte prima), p. 208, Tipografia Coppini, Firenze 1997.

[20] La storiografia classica indicava la bottega del Verrocchio, prediletta dalla famiglia di Lorenzo per le commissioni artistiche, all’origine dell’incontro; ma poi dai documenti emerse che Ser Piero da Vinci era il notaio dei Medici.

[21] Carlo Pedretti, Il genio in presa diretta, in Leonardo – Arte e Scienza, p. 7, Giunti, Firenze 2000.

[22] Cfr. Silvana Levi Orban, Leonardo da Vinci, p. 50, Edizioni Futuro di Vinicio de Lorentiis, Verona 1981.

[23] Tale era la fama di Sandro Botticelli, che frequentava come Leonardo la bottega di Andrea del Verrocchio, presso la quale lavoravano Pietro Perugino, poi maestro di Raffaello, Domenico Ghirlandaio, Lorenzo di Credi, Fra’ Bartolomeo, Giovanfrancesco Rustici, Bartolomeo della Gatta e tanti altri.

[24] Carlo Pedretti, Il genio in presa diretta, op. cit., idem.

[25] La celebre lettera di Leonardo a Ludovico il Moro, ritrovata tra i fogli del Codice Atlantico, è un capolavoro di autopromozione che non ha uguali nella storia dell’arte e rivela la capacità di non suscitare l’impressione sgradevole della vanteria perché, per ogni competenza e capacità che indica, fornisce informazioni dettagliate.

[26] Cfr. Giorgio Vasari, Vita di Lionardo da Vinci Pittore e Scultore fiorentino, in Giorgio Vasari, Le vite dei più eccellenti pittori scultori e architettori (anastatica con copyright dell’Editrice Italiana di Cultura, 1966), alle pp. 467-481, della ristampa Rusconi, Milano 2002.

[27] Giorgio Vasari, Vita di Lionardo da Vinci Pittore e Scultore fiorentino, op. cit., p. 469.

[28] Giorgio Vasari, op. cit., p. 469.

[29] Carlo Pedretti, Il genio in presa diretta, op. cit., idem.